È da salutare con favore la scelta della legge n. 24 del 2017 (c.d. Bianco-Gelli, "Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie" di assegnare primaria attenzione al fenomeno assicurativo.
L’istituzione di un fondo di garanzia [art. 14], la previsione di un’azione diretta esperibile dal paziente nei confronti della compagnia d’assicurazione del danneggiante [art. 12] e, infine, l’attivazione di un obbligo assicurativo (unilaterale) in capo alle strutture e ai professionisti sanitari [art. 10, completato dalla previsione dell’art. 11] sono tutti strumenti che, nel loro complesso, intendono chiudere il cerchio del sistema di responsabilità attraverso un meccanismo di socializzazione del rischio:
- da un lato, garantendo al potenziale danneggiato la sicurezza di un soggetto capiente al quale poter rivolgere le proprie pretese risarcitorie e che possa indennizzarlo della perdita subita
- dall’altro, sollevando l’esercente (o la struttura) dal rischio – per questa via trasferito all’impresa d’assicurazione – di vedere compromessa la propria capacità patrimoniale [Romagnoli, L’attesa per l’operatività della disciplina assicurativa della legge Gelli-Bianco, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 1387].
L’istituto assicurativo diviene, in altre parole, parte del più ampio progetto di tutela di tutte le parti coinvolte nell’esercizio dell’attività medica.
All’art. 10 il testo della novella – che si colloca nella direzione inaugurata dalla riforma Balduzzi e ne amplia la prospettiva [amplius, Selini, Il passato e il presente dell’obbligo assicurativo in ambito sanitario, in Danno resp., 2017, 301] – prevede, in capo alle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private, un obbligo di assicurazione per la responsabilità civile verso terzi e verso prestatori d’opera, senza escludere dal suo ambito di operatività i danni cagionati dal personale a qualunque titolo ivi operante: sono infatti compresi, tra gli altri, "coloro che svolgono attività di formazione, aggiornamento nonché di sperimentazione e di ricerca clinica" e coloro che esercitano "in regime di libera professione intramuraria ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina".
La riforma ne impone, altresì, la pubblicità: ai sensi dell’art. 10, quarto comma, le strutture devono rendere nota, sul proprio sito internet, la denominazione della compagnia d’assicurazione con cui hanno stipulato un contratto di copertura della responsabilità civile verso i terzi e verso i prestatori d’opera. Tale obbligo investe "i contratti, le clausole assicurative ovvero le altre analoghe misure che determinano la copertura assicurativa".
Per fare fronte all’azione promossa ex art. 2043 c.c. nei confronti dell’esercente, i cennati enti sanitari sono altresì chiamati a reperire polizze assicurative a copertura della responsabilità civile verso terzi degli esercenti la professione sanitaria ai sensi dell’art. 7, terzo comma, della legge.
Per contro, nel caso in cui l’esercente svolga la propria attività al di fuori della struttura o, all’interno, (ma) in regime di libera professione o, ancora, si avvalga della struttura nell’adempimento dell’obbligazione contrattuale assunta con il paziente, questi è tenuto alla stipulazione di apposite coperture per i danni derivanti dall’esercizio della professione [v. art. 10, c. 2].
A completamento della disciplina, l’art. 10 dispone per gli esercenti a vario titolo operanti all’interno di enti un obbligo di assicurarsi, con oneri a loro carico, per i danni risultanti da condotte gravemente colpose, sì da garantire efficacia alle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa ex art. 9 (o di recupero ex art. 12 da parte dell’impresa di assicurazione).
Le 2 principali criticità che il regime di responsabilità obbligatoriamente assicurata sembra appalesare
1. L’obbligo di dotarsi di una copertura assicurativa viene fatto gravare unicamente sui soggetti a vario titolo coinvolti nell’esercizio della professione medica; il legislatore ha ritenuto, invece, di non introdurre un corrispettivo dovere in capo alle imprese d’assicurazione, come invece è accaduto, a partire dalla legge 24 dicembre 1969, n. 990 (disciplina poi trasfusa all’interno del codice delle assicurazioni private), nell’ambito della responsabilità da circolazione di veicoli e natanti, oggetto di passate contestazioni.
Infatti, proprio con riguardo a tale settore, nel 2006 la Commissione Europea [ricorso del 20 dicembre 2006, causa C-518/06, in G.U.U.E., 2007/C42/25, 15], aveva affermato che «mantenendo l’obbligo a contrarre l’assicurazione responsabilità civile auto per tutte le imprese di assicurazione, comprese le imprese di assicurazione, con sede centrale in un altro Stato membro ma operanti in Italia nel quadro della libertà di stabilimento o della libera prestazione di servizi», l’Italia sarebbe venuta meno «agli obblighi ad essa derivanti dagli articoli 43 e 49 [oggi, 49 e 56 TFUE, n.d.r.] del Trattato che istituisce la Comunità europea». L’obbligo a contrarre imposto dallo Stato italiano era stato giudicato quale un «ostacolo non giustificato né proporzionato rispetto allo scopo perseguito».
In realtà, la Corte di Giustizia [Corte di Giust. UE, grande sezione, 28 aprile 2009, n. 518, in Corr. giur., 2010, 455, con nota di Rossetti, Tanto tuonò che non piovve: come sopravvisse l’obbligo di contrattare, nonché in Resp. civ. prev., 2009, 2263, con nota di Piras, Principi del diritto comunitario e obbligo a contrarre nel ramo r.c. auto], ha prima constatato come l’obbligo a contrarre in capo alle imprese d’assicurazione restringesse la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi.
Una simile restrizione, purtuttavia, doveva ritenersi giustificata. In adesione alle motivazioni esposte dall’Avvocatura dello Stato, la Corte – preso atto che il «numero di incidenti stradali dichiarati alle imprese di assicurazioni risulta particolarmente elevato in talune zone dell’Italia meridionale. Tale situazione ha condotto ad un considerevole aumento dei rischi finanziari cui tali imprese sono esposte in dette zone» – ha definito corretta l’imposizione «a tutte le imprese operanti sul proprio territorio un obbligo di contrarre nei confronti di tutti i proprietari di autoveicoli residenti in Italia, al fine di evitare che tali imprese si ritirino dalla parte meridionale del territorio italiano e privino in tal modo i proprietari di autoveicoli ivi residenti della possibilità di concludere l’assicurazione, peraltro obbligatoria, di responsabilità civile auto». L’obbligo, dunque, veniva giudicato «idoneo a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non va al di là di quanto è necessario per il suo conseguimento».
In dottrina, si individuano (almeno) due ragioni a favore del mancato accoglimento della obbligatorietà bilaterale: oltre a ravvisare uno sfavorevole rapporto premium/loss che affligge il settore sanitario, con ulteriore allontanamento delle imprese dal mercato, il timore è quello di un possibile (secondo) intervento da parte della Corte di Giustizia che, nell’ambito in esame, potrebbe non rilevare le stesse ragioni che l’avevano portata a giustificare un obbligo bilaterale per l’area della responsabilità civile automobilistica [Ponzanelli, Medical malpractice: la legge Bianco Gelli. Una premessa, in Danno resp., 2017, 268].
Quali che siano i fattori – politici, attuariali, economici o giuridici – che hanno condotto il legislatore a formulare una simile scelta, ci si chiede se la previsione dell’unilateralità dell’obbligo a contrarre costituisca un limite non ininfluente, introducendo, nel sistema, i germi di un’asimmetria tra posizioni.
La limitata disponibilità del comparto assicurativo a offrire una copertura nel ramo in esame, infatti - pur motivata da un negativo, quindi sconveniente, rapporto sinistri/premi - contribuirebbe, tra gli altri fattori, a rendere disagevole, per i protagonisti della scena sanitaria (specie le strutture, situate al centro dell’attenzione risarcitoria), il reperimento sul mercato di polizze che coprano la medical malpractice a condizioni accessibili e sostenibili.
A completare il quadro degli obblighi assicurativi interviene la previsione di «altre analoghe misure» (di misure, cioè, alternative all’assicurazione): tale espressione, non meglio puntualizzata dalla novella, intende descrivere i fenomeni di c.d. autoassicurazione [Gagliardi, I riflessi dell’autoassicurazione (e dell’obbligo di assicurazione) sul mercato e sulle logiche assicurative, in Riv. it. med. leg., 2014, 1219] – in forza dei quali la struttura sanitaria, rinunciando alla copertura di un’impresa assicurativa, assume direttamente su di sé e gestisce in proprio l’intero rischio di responsabilità correlato a sinistri sanitari – ma si riferisce anche ad ipotesi di SIR (Self Insured Retention), che invece definisce un meccanismo di auto-ritenzione parziale che permette alla struttura assicurata di “scorporare” dal contratto assicurativo rischi di minore importo, i quali vengono internalizzati, per trasferire all’assicuratore la sola quota di rischio più gravosa [Facci, Gli obblighi assicurativi nella recente riforma Gelli-Bianco, in Nuova giur. civ. comm., 2018, 104].
Se, da un lato, simili misure contribuirebbero alla promozione di pratiche di risk management e a superare le difficoltà di reperimento di polizze sul mercato, dall’altro, la loro realizzazione richiederebbe specifiche competenze attuariali e una programmazione economica idonea a accantonare risorse per fare fronte alle richieste di risarcimento [Corrias, La copertura obbligatoria dei rischi relativi alla responsabilità civile, in Corr. giur., 2017, 749].
2. L’altro principale polo di criticità è ravvisabile nel (tuttora emanando) decreto attuativo ex art. 10, sesto comma, chiamato al delicato compito di individuare i «requisiti minimi di garanzia», con le relative «classi di rischio» e «massimali differenziati», le «condizioni generali di operatività delle altre analoghe misure», pure «regole per il trasferimento del rischio nel caso di subentro contrattuale di un’impresa di assicurazione nonché la previsione nel bilancio delle strutture di un fondo rischi e di un fondo costituito dalla messa a riserva per competenza dei risarcimenti relativi ai sinistri denunciati»; decreto al quale la letteratura sembra affidare speranze di risoluzione delle lacune del sistema assicurativo delineato dalla novella.