Al centro del dibattito: la legittimità costituzionale dell'aiuto al suicidio medicalmente assistito
Con la sentenza n. 135/2024 la Corte costituzionale è stata chiamata nuovamente a pronunciarsi in materia di fine vita, decidendo la questione di legittimità costituzionale sollevata dal G.i.p. presso il Tribunale di Firenze, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione presentata dalla Procura della Repubblica di Firenze nell’ambito del procedimento penale che vede indagate tre persone (tra cui Marco Cappato) per il reato di aiuto al suicidio ex art. 580 c.p., per aver posto in essere condotte dirette ad agevolare il proposito suicidario, liberamente e autonomamente formato, di una persona affetta da sclerosi multipla, in stadio avanzato e ormai quasi totalmente immobilizzata, ma non tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, accompagnandola in Svizzera, così da poter accedere al suicidio medicalmente assistito (SMA).
Il G.i.p. - avendo rilevato l’impossibilità di escludere l’applicazione dell’art. 580 c.p. e avendo ritenuto non sussistente l’ipotesi di esclusione della punibilità stabilita dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 242/2019, data la mancanza nel caso concreto del presupposto della dipendenza dell’aspirante suicida da “trattamenti di sostegno vitale” - ha chiesto alla Consulta di dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 580 c.p., così come modificato dalla sentenza n. 242/2019, esclusivamente nella parte in cui pone come requisito per la non punibilità la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale di persona, affetta da patologia incurabile e fonte di sofferenze ritenute intollerabili, ma capace di esprimere un consenso libero e consapevole, per contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 32 e 117, 1 comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU.
Nel far ciò, il giudice rimettente ha voluto specificare di non voler indurre la Corte a smentire la sua precedente pronuncia, né di intendere impugnare surrettiziamente la sentenza, violando il divieto posto dall’art. 137, 3 comma, Cost.; piuttosto lo scopo perseguito è stato consentire al Giudice delle leggi di pronunciarsi nuovamente, per adeguare il «minimum di tutela da riconoscersi ai diritti fondamentali del paziente» ai nuovi stimoli derivanti dalla casistica, in modo da «sfaldare progressivamente il divieto di aiuto al suicidio» ancora dotato di una «portata sovraestesa».
L'intervento ad adiuvandum: le voci delle dirette interessate Laura Santi e Martina Oppelli
Con ordinanza posta in calce alla pronuncia in oggetto, e letta nel corso dell’udienza del 19 giugno scorso, la Corte costituzionale ha ammesso nel giudizio davanti a sé l’intervento ad adiuvandum di due donne, Laura Santi e Martina Oppelli, affette da più di venticinque anni da sclerosi multipla, a causa della quale soffrono
gravissime limitazioni motorie e sono divenute dipendenti dall’intervento di terzi per svolgere le proprie funzioni vitali.
Dopo aver maturato la volontà di porre fine alla loro vita, esse si sono rivolte alla propria Azienda sanitaria, per accedere alla procedura di suicidio medicalmente assistito; tuttavia, il diniego ricevuto, motivato dalla ritenuta mancata sussistenza del presupposto della dipendenza da trattamento di sostegno vitale, le ha indotte a presentare la medesima richiesta in Svizzera.
Sulla base di questi elementi fattuali sono stati applicati i presupposti per l’intervento in giudizio di soggetti terzi, attualmente previsti dall’art. 4, 3 comma, Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, e sono state ritenute legittimate all’intervento.
Più precisamente, Laura Santi e Martina Oppelli sono state ritenute titolari di un interesse qualificato, direttamente e immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, poiché l’incidenza della sentenza sulla loro situazione giuridica soggettiva non sarebbe derivata, come per la generalità delle situazioni disciplinate dalla norma impugnata, dalla decisione sulla legittimità costituzionale di quest’ultima, ma piuttosto è stata riconosciuta essere conseguenza diretta ed immediata dell’efficacia, che la pronuncia, una volta adottata, avrebbe prodotto sul rapporto sostanziale oggetto dello stesso giudizio principale.
Del resto, da un lato, la loro posizione giuridica soggettiva non si poneva in analogia con quella degli indagati nel giudizio a quo, non essendo sottoposte ad alcun procedimento penale per l’accertamento del delitto, di cui all’art. 580 c.p.; dall’altro, lo stato patologico avanzato in cui versano non consentirebbe a loro di avere materialmente il tempo per avviare un giudizio, nell’ambito del quale poter sollevare analoga questione di legittimità.
Esse sono state riconosciute essere semplicemente persone, che hanno chiesto di accedere al SMA e a cui una simile soluzione è stata negata in forza della disposizione censurata; sicché la Corte ha ritenuto di dover tutelare il loro diritto di difesa (art. 24 Cost.) «nella sua essenziale dimensione di effettività», rappresentando il giudizio costituzionale in corso «l’unica sede», in cui poter far valere le proprie ragioni «in una questione che coinvolge la vita stessa delle intervenienti».
Il diritto all’autodeterminazione terapeutica
Con la nuova sentenza la Corte ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal G.i.p. di Firenze, specificando fin da subito come la precedente sentenza n. 242 del 2019 si fosse limitata a riconoscere l’irragionevolezza della preclusione dell’accesso al SMA per i pazienti che si trovano affetti da patologia incurabile, fonte di sofferenze ritenute dagli stessi intollerabili, e che mantengono intatta la propria capacità decisionale, tenuto conto che già la l. n. 219 del 2017, in attuazione dell’art. 32, 2 comma, Cost., riconosce loro il diritto di porre fine alla propria vita, rifiutando di sottoporsi a un trattamento sanitario necessario per la sopravvivenza.
Pertanto, non è stata affermata l’esistenza di un generale diritto a terminare la propria vita in qualsiasi situazione di patologia irreversibile, causa di insopportabili sofferenze; e nessuna disparità di trattamento tra pazienti (ex art. 3 Cost.) deve rinvenirsi nell’inclusione tra i presupposti per accedere al SMA della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, data la differenza esistente tra le situazioni di chi è dipendente da questi trattamenti e chi no, siccome il malato non dipendente dagli stessi non può (o non può ancora) «lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure».
È pacifico che dagli artt. 2, 13 e 32, 2 comma, Cost è stato riconosciuto discendere il diritto di ogni paziente di rifiutare qualsiasi trattamento medico non imposto per legge, anche se da ciò dovesse derivare la morte (autodeterminazione terapeutica). Esso rappresenta, dunque, una «libertà “negativa”» del paziente a non subire interventi indesiderati sul corpo e nel corpo, «anche laddove tali interventi abbiano lo scopo di tutelare la sua salute o la sua stessa vita».
Il dovere dell’ordinamento di tutela della vita umana
Differente è, invece, il diritto all’autodeterminazione, che è stata sostanzialmente invocato nell’ordinanza di rimessione dal giudice a quo: esso è più ampio della mera pretesa del soggetto di rifiutare il trattamento medico, arrivando a ricomprendere la generalità delle decisioni che riguardano il proprio corpo, e conseguentemente incontra un limite nel rispetto del dovere di tutela della vita umana, che parimenti discende in capo alla Repubblica dall’art. 2 Cost. e con cui deve essere bilanciato.
Infatti, l’introduzione di qualsiasi normativa permissiva di pratiche eutanasiche o di suicidio assistito, oltre ad ampliare gli spazi di scelta del singolo sul proprio destino, è stata riconosciuta portare con sé, contestualmente, rischi che l’ordinamento deve scongiurare e che riguardano: tanto possibili condotte abusive di terzi in danno dell’aspirante suicida; quanto l’eventualità che la mancata previsione di adeguate «garanzie sostanziali e procedimentali» crei «una “pressione sociale indiretta” su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società», così da decidere di morire anzitempo.
È compito del legislatore l’individuazione di un punto di equilibrio tra questi interessi costituzionalmente rilevanti ma contrapposti, muovendosi nell’ampio perimetro tracciato dalla giurisprudenza costituzionale in materia, il cui compito è semplicemente quello di fissare il limite minimo di tutela costituzionalmente imposto, senza sostituirsi al Parlamento.
Sul punto, con la precedente sentenza n. 50 del 2022 è stata riconosciuta l’incompatibilità con la Costituzione di una eventuale disciplina, che dovesse subordinare alla mera volontà dell’interessato «la liceità delle condotte che ne cagionino la morte, a prescindere dalle condizioni in cui il proposito è maturato, dalla qualità del soggetto attivo e dalle ragioni da cui questo è mosso, così come dalle forme di manifestazione del consenso e dai mezzi usati per provocare la morte».
Inoltre, la Corte ha considerato non condivisibile la censura del giudice rimettente, secondo cui il requisito di accesso al SMA della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale creerebbe un meccanismo «perverso», che costringe l’individuo a sottoporsi a tali trattamenti, anche invasivi, solamente per realizzare tutti i presupposti contenuti della sentenza n. 242 del 2019. Infatti, il diritto fondamentale ex artt. 2, 13 e 32, 2 comma, Cost. comprende anche la pretesa del paziente di rifiutare fin dall’inizio trattamenti idonei a garantirgli la sopravvivenza. Pertanto, non è configurabile, sia costituzionalmente sia ex art. 1, 5 comma, l. n. 219 del 2017, alcuna differenza tra il paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può pretendere l’interruzione, e quello che necessiti di avviarli, ben potendoli quest’ultimo rifiutare.
Il bilanciamento tra dignità soggettiva e tutela della vita
Partendo dal presupposto che per l’ordinamento «ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete condizioni in cui essa si svolga», la Consulta ha derivato l’impossibilità di affermare che il divieto penalmente imposto, ex art. 580 c.p., costringa il paziente a vivere una vita non degna di essere vissuta sul piano oggettivo.
Pertanto, non hanno potuto trovare condivisione le argomentazioni sviluppate dal giudice a quo, per sostenere la contrarietà al principio di tutela della dignità umana della norma censurata, facendo leva su una concezione della dignità qualificabile come soggettiva, in quanto inerente alla «concezione che il paziente ha della propria persona e al suo interesse a lasciare una certa immagine di sé».
Ad ogni modo, rispetto a quest’ultima la Corte non si è dimostrata insensibile, come risulta dall’ordinanza n. 207 del 2018, in cui è stato posto il riferimento alla percezione soggettiva che il paziente ha della dignità della propria vita e morte. Tuttavia, la sua sovrapponibilità con la nozione di autodeterminazione della persona e, dunque, con la libertà dell’individuo di assumere da sé le scelte fondamentali sulla propria esistenza (incluse anche quelle concernenti la morte) rende sempre necessario un bilanciamento con il contrapposto dovere costituzionale di tutela della vita umana, che solo il legislatore può assicurare adeguatamente, godendo a riguardo di un «significativo margine di apprezzamento».
CEDU e fine vita: l'allineamento della Corte costituzionale
La Corte costituzionale non ha ritenuto condivisibile neppure la censura dell’art. 580 c.p. per la violazione dell’art. 117, 1 comma, Cost. in relazione all’art. 8 CEDU. Nel far ciò, si è allineata alla sentenza della Corte EDU, Karsai v. Ungheria del 13 giugno 2024, con la quale è stata riconosciuta la sussistenza in capo agli Stati di un considerevole margine di apprezzamento nel bilanciamento tra il diritto al rispetto della vita privata, all’interno del quale deve essere ricompresa la decisione di ciascuno sui mezzi e sul tempo di conclusione della propria vita, e le ragioni di tutela della vita umana.
Secondo i Giudici di Strasburgo è compatibile con il dettato della CEDU sia la conservazione nei singoli Paesi di legislazioni restrittive in materia di fine vita sia l’introduzione di discipline che legittimino le pratiche di suicidio medicalmente assistito o di eutanasia (si veda il precedente contributo disponibile su questo sito).
Inoltre, nello stesso modo in cui sono state respinte le censure formulate rispetto all’art. 3 Cost., nessun contrasto è stato ritenuto ravvisabile con l’altro parametro interposto, invocato dal G.i.p. di Firenze, ossia l’art. 14 CEDU (divieto di discriminazione), non essendo qualificabile come irragionevole la limitazione dell’accesso lecito al SMA ai soli pazienti a cui è consentito costituzionalmente morire, rifiutando trattamenti di sostegno vitale.
Nuovo monito al legislatore e al SSN: l'attuazione della sentenza sul suicidio assistito
A seguito delle sollecitazioni dei difensori delle parti e degli intervenienti, nella pronuncia è stato precisato che cosa si debba intendere per “trattamenti di sostegno vitale” secondo l’ordinanza n. 207 del 2018 e la sentenza n. 242 del 2019.
Più propriamente è stato affermato essere compito del Servizio sanitario nazionale e dei giudici comuni l’interpretazione di tale nozione in conformità alla ratio di quelle decisioni, consistente nel riconoscimento del diritto fondamentale del paziente di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario sul proprio corpo, a prescindere dal suo grado di complessità tecnica ed invasività.
Pertanto, nei trattamenti di sostegno vitale, a fini dell’applicazione della sentenza del 2019, la Corte ha ricompreso tutte quelle procedure realizzate non solamente da personale sanitario, ma anche da parenti e caregivers, «necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte» dello stesso in breve tempo, come ad esempio: l’inserimento di cateteri urinari, l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali o l’evacuazione intestinale manuale.
Il loro rifiuto, dunque, deve ritenersi consentito, rientrando nell’ambito di applicazione dello schema tracciato con la sentenza n. 242 del 2019, che, oltre a richiedere la verifica di ogni requisito, esige anche il rispetto delle garanzie procedurali, giudicate essenziali dalla stessa Corte, per prevenire quei rischi di abuso in danno delle persone deboli e vulnerabili, che l’aveva indotta, già con l’ordinanza del 2018, a chiedere prioritariamente al legislatore di intervenire con una complessiva regolamentazione della materia.
Non stupisce, dunque, che in conclusione di motivazione la Corte costituzionale abbia sentito il bisogno di rivolgere nuovamente un monito al legislatore e al Servizio sanitario nazionale, affinché intervengano per assicurare una puntuale e concreta attuazione a quanto stabilito dalle pronunce del 2018 e del 2019 e che adesso è stato ribadito e ulteriormente precisato. Ovviamente non è escluso che il legislatore possa optare per differenti soluzioni, purché ugualmente rispettose del complesso di principi di diritto ricostruito dalla giurisprudenza costituzionale.
Ugualmente è stato ribadito l’auspicio che a tutti i pazienti sul territorio nazionale sia effettivamente consentito di accedere alle cure palliative, secondo quanto stabilito dalla legge n. 38 del 2010, assicurando le necessarie coperture finanziarie.