1 agosto 2024

Suicidio medicalmente assistito: il caso Karsai v. Ungheria

Giurisprudenza

La Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha sentenziato che il diniego del suicidio medicalmente assistito non nega i diritti umani.

Il caso di Daniel Karsai

Con la sentenza del 13 giugno 2024 (ricorso n. 32312/23), la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) ha deciso il caso di Daniel Karsai, cittadino ungherese affetto da sclerosi laterale amiotrofica (SLA), che, dato il carattere incurabile e degenerativo della malattia, ha maturato la volontà di poter essere aiutato a porre fine alla sua vita, prima che il decorso naturale della patologia gli causi sofferenze intollerabili. Tuttavia, ciò risulta vietato penalmente dalla legge ungherese, secondo cui costituisce reato aiutare taluno al suicidio, sia se ciò avviene in Ungheria, sia se l’aiuto viene fornito all’estero, anche nel caso in cui la persona aiutata sia affetta da malattia terminale degenerativa incurabile.

Pertanto con il ricorso, presentato ex art. 34 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), Karsai ha lamentato la violazione da parte dell’Ungheria:

  • dell’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare), in quanto al ricorrente non sarebbe reso possibile dalla legge ungherese essere aiutato nella realizzazione del proposito suicidario, nonostante sia affetto da malattia terminale, fonte di sofferenze;
  • dell’art. 14 CEDU (divieto di discriminazione) in combinato disposto con l’art. 8 CEDU, in quanto la discriminazione, a cui la normativa vigente sottoporrebbe il ricorrente, consisterebbe nella privazione di quest’ultimo di una via legale per porre fine alla sua vita, a differenza di quanto è previsto per i pazienti terminali, mantenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale, i quali, invece, possono chiedere l’interruzione del trattamento di sostegno vitale; 
  • dell’art. 3 CEDU (divieto di trattamenti inumani e degradanti), in quanto l’impossibilità di accedere al suicidio medicalmente assistito (SMA) significherebbe costringere il ricorrente a “restare bloccato all’interno del proprio corpo, rimanendo perfettamente cosciente per un periodo prolungato, in attesa così della morte senza alcuna esistenza significativa”;
  • dell’art. 9 CEDU (libertà di pensiero, coscienza e religione), rappresentando per il ricorrente la possibilità di morire dignitosamente un elemento centrale del proprio credo religioso e filosofico.

La decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU)

La Prima Sezione della Corte EDU con 6 voti favorevoli e 1 contrario ha deciso quanto segue.

Non vi è stata violazione dell’art. 8 CEDU.

Partendo dalla precisazione che l’art. 2 della CEDU (diritto alla vita) non impedisce ai singoli Stati di consentire il SMA, a condizione che siano fornite adeguate garanzie contro eventuali forme di abuso, la Corte EDU ha riconosciuto sussistere in materia un considerevole margine di discrezionalità delle Autorità nazionali.

Del resto è proprio il carattere morale, etico e politico delle questioni sollevate a porre i singoli Stati nella posizione migliore, per operare un adeguato bilanciamento tra gli interessi in rilievo. Come noto, essendo mancato un intervento del legislatore in tal senso, in Italia è stata inizialmente la Corte costituzionale a definire le modalità dell’aiuto al suicidio a tutela del cittadino, seguita poi da alcune iniziative in materia di suicidio medicalmente assistito promosse dalle regioni.

A ciò, inoltre, si aggiungerebbe la considerazione che, qualora la richiesta del ricorrente fosse stata ritenuta fondata, in capo allo Stato sarebbe derivato ex art. 8 CEDU un intreccio di obblighi positivi e negativi, dato che alla depenalizzazione di alcune forme di aiuto al suicidio necessariamente deve conseguire l’introduzione di una regolamentazione delle stesse, oltre che la predisposizione di un adeguato accesso alle relative prestazioni sanitarie. 

Al contempo, ad essere considerata è stata anche la scelta di diversi ordinamenti europei di non punire penalmente il SMA in casi riguardanti pazienti affetti da malattie incurabili (ad es. Austria, Spagna, Italia, Portogallo, Germania), anche se la maggior parte degli Stati continua a proibire suddette condotte, unitamente all’eutanasia. 

Secondo i giudici di Strasburgo, a livello internazionale non vi sarebbe alcun obbligo per i singoli Paesi di consentire il suicidio assistito e, non essendo possibile valutare oggettivamente la sofferenza esistenziale che affligge ogni malato, sarebbe impossibile per la Corte fissare un livello di rischio accettabile del SMA.

D’altra parte, sono molte le implicazioni sociali e i rischi di abuso e di errore che l’accesso allo stesso porterebbe con sé; soprattutto per ciò che concerne la garanzia che la decisione del paziente sia libera da condizionamenti esterni e consapevole, posto che è essenziale che sia assicurata l’opzione di cure palliative di qualità, per permettere un fine vita dignitoso. 

Pertanto, la previsione da parte dell’ordinamento ungherese di un divieto penale per il SMA non deve ritenersi eccedente la discrezionalità propria dell’Ungheria, essendo altrettanto legittima la repressione delle medesime condotte compiute all’estero, data la necessità di assicurare una coerenza del sistema normativo nazionale.

Non vi è stata violazione del combinato disposto tra artt. 8 e 14 CEDU.

La Corte ha ritenuto che la disparità di trattamento, che la normativa ungherese vigente determina tra malati terminali sulla base della dipendenza o meno da trattamenti di sostegno vitale, deve considerarsi oggettivamente e ragionevolmente giustificata. 

I giudici di Strasburgo, infatti, hanno specificato come il diritto di rifiutare o richiedere l’interruzione delle cure mediche nel momento finale della vita deve considerarsi incluso nel diritto del paziente di esprimere un consenso libero e informato, elemento centrale della professione medica, sancito anche dalla Convenzione di Oviedo, che non garantisce invece il SMA.

Infine all’unanimità sono state riconosciute manifestamente infondate le asserite violazioni degli artt. 3 e 9 CEDU, singolarmente considerati e in combinato disposto con l’art. 14.

Le opinioni dissenzienti sulla sentenza

Non essendo stata la decisione condivisa dall’intero collegio, sono stati allegati alla sentenza due pareri separati.

La priorità del diritto alla vita secondo il giudice polacco

Da un lato il giudice Krzysztof Wojtyczek ha redatto un’opinione in parte concorrente e in parte dissenziente, secondo cui il ricorso presentato da Karsai avrebbe dovuto essere dichiarato manifestamente infondato, in quanto l’accesso al SMA o all’eutanasia non potrebbe ritenersi un diritto riconosciuto e garantito dalla CEDU. Più precisamente, il giudice polacco ha sostenuto la necessità di operare un’interpretazione restrittiva dell’art. 2 CEDU, in cui sono state elencate in modo esaustivo le eccezioni all’obbligo di protezione della vita umana. Tra di esse non sono menzionati né l’eutanasia né il SMA e, pertanto, da scoraggiarsi sarebbero interpretazioni dinamiche, volte a una loro depenalizzazione. 

Conseguentemente, secondo il giudice Wojtyczek non sarebbe condivisibile la determinazione della maggioranza, per cui l’interesse del ricorrente ad accedere al suicidio assistito rientra nell’ambito di applicazione del diritto al rispetto della vita privata ex art. 8 CEDU, dovendosi tuttalpiù ritenere parametro invocabile la tutela del diritto alla vita ex art. 2 CEDU. Perplessità sono state avanzate anche in relazione alla concezione della vita privata, che si verrebbe ad affermare, se in essa fosse inclusa l’autodeterminazione di ciascun individuo sulla propria vita e morte, in quanto ciò rischierebbe di compromettere il significato stesso della vita, esacerbando la sofferenza ed esponendo le persone più vulnerabili a suggestioni e pressioni.

In conclusione, in base a tale parere sarebbe difficile conciliare l’efficace tutela del diritto alla vita con l’accesso al SMA o all’eutanasia.

L’interpretazione estensiva dei “trattamenti di sostegno vitale” del giudice di San Marino

Opinione opposta e totalmente dissenziente è stata formulata, invece, dal giudice di San Marino Gilberto Felici, secondo cui, sul piano giuridico, non vi sarebbe la totale impossibilità di affermare un obbligo positivo e negativo degli Stati sulla base dell’art. 8 CEDU, ritenendo conseguentemente contrario alla Convenzione stessa la previsione di sanzione penale per chi aiuta la realizzazione del proposito suicidario in situazioni come quella del caso in oggetto, tanto più se ciò dovesse avvenire all’estero. Infatti il contenuto intrinseco del diritto al rispetto della vita privata comprenderebbe anche il diritto di resistere alle sofferenze fisiche, anche nel caso in cui ciò comporti la cessazione della propria vita, qualora ciò sia conforme alla concezione di esistenza del singolo.

Il giudice Felici, inoltre, sulla base di un’accezione estensiva dei “trattamenti di sostegno vitale” (ossia non semplicemente come dipendenza dalle macchine, ma come comprensiva di tutte quelle forme di assistenza che sono necessarie per consentire la sopravvivenza del paziente) ha formulato il proprio dissenso in merito alla mancata equiparazione, nella decisione di maggioranza, tra i malati terminali che non necessitano di trattamenti salvavita e quelli che, invece, necessitano di essi e, dunque, possono rifiutare o chiedere l’interruzione dei medesimi: costituirebbe un’indebita ingerenza nella vita privata del singolo paziente, intesa come propria capacità di autodeterminazione, la subordinazione della possibilità di porre fine anticipatamente alla propria vita alla dipendenza o meno da trattamenti salvavita; dovendosi, piuttosto, adoperare come criterio discretivo la malattia, da cui il paziente è affetto, e la sofferenza, che essa provoca.

Pertanto, secondo il giudice sanmarinese, il ricorso avrebbe dovuto essere accolto, dovendosi ritenere sussistenti le violazioni dell’art. 8 CEDU e dell’art. 14, in combinato disposto con l’art. 8, avendo la Corte perso un’occasione – soprattutto data la mancata rimessione del caso alla Grande Camera - per colmare una lacuna giuridica, così da fornire una risposta a una domanda sociale, in mancanza di un intervento uniforme dei singoli Stati.