Il caso di danno da vaccinazione
L’ordinanza qui commentata ha ad oggetto un caso di danno da vaccinazione. I profili sottoposti all’attenzione della Suprema Corte riguardano, in particolare, la mancata dimostrazione del nesso causale tra la somministrazione del vaccino cui un minore si era sottoposto e il pregiudizio psicofisico da questi patito, oltre al danno derivante dalla violazione dell’obbligo del consenso informato rispetto al trattamento vaccinale (non obbligatorio).
L’iter processuale
Dopo aver ottenuto l’accoglimento della domanda di indennizzo ai sensi della l. 25 febbraio 1992, n. 210 (“Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati”), i genitori di un minore decidevano di rivolgersi al Tribunale per chiedere la condanna dell’ASL al risarcimento dei danni asseritamente cagionati al figlio in conseguenza di un trattamento vaccinale.
In particolare, essi deducevano che, in tenera età, il bambino era stato sottoposto, prima, a vaccinazione esavalente obbligatoria e, a poco più di un mese di distanza, al vaccino (solo raccomandato) MPR (contro, cioè, morbillo, parotite, rosolia). Secondo la prospettazione degli attori, a seguito di tali somministrazioni si erano verificate delle reazioni avverse, che avevano determinato nel minore, nato sano, una progressiva e grave regressione psicofisica.
Chiedevano, quindi, il risarcimento del danno “sia sotto il profilo della insussistenza di un valido consenso informato, sia per aver causato con le vaccinazioni, ad un bimbo nato sano, una progressiva regressione”, cui seguivano esigenze di cura e sorveglianza.
In primo grado, il Tribunale rigettava la domanda.
La Corte d’Appello perveniva, invece, a conclusioni parzialmente difformi. Per un verso, infatti, i giudici accoglievano la pretesa risarcitoria degli appellanti in relazione alla mancanza del consenso informato, liquidando la somma di euro 10.000; per un altro, ritenevano sguarnito di prova il nesso causale tra la vaccinazione e le patologie manifestate, pur poco tempo più tardi, dal minore, e riconducibili allo spettro autistico, “del quale le pubblicazioni scientifiche accreditate escludevano che potesse essere riconducibile causalmente alle vaccinazioni”.
La decisione definitiva della Cassazione
Nel giudizio di cassazione, la Corte confermava le statuizioni dei giudici di merito: in considerazione della mancata dimostrazione di una correlazione eziologica tra vaccino e pregiudizio doveva negarsi il diritto al risarcimento del danno; del tutto distinto, invece, era il piano del consenso informato, di cui si conferma la violazione e la conseguente responsabilità in capo alla struttura.
Nesso causale e vaccinazioni: l’indirizzo della giurisprudenza
In rapida sintesi, il nesso di causalità consente, come noto, di imputare oggettivamente l’evento dannoso al suo autore: trattandosi di elemento costitutivo ed indefettibile della fattispecie di responsabilità civile, esso condiziona l’an della risposta risarcitoria.
È la sua dimostrazione, in particolare, a costituire tema di straordinaria attenzione e attualità, specie in ambiti intrinsecamente connotati dall’incertezza causale, che sovente investe anche la materia esaminata in questa sede.
Secondo l’insegnamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, la prova della derivazione eziologica della malattia dal trattamento vaccinale deve soggiacere al criterio della “ragionevole probabilità scientifica” (di recente, v. Cass. 3 febbraio 2021, n. 2474; Cass. 9 maggio 2023, n. 12467), così contrapposto alla mera ipotesi (o possibilità) causale, viceversa irrilevante.
Senza voler scomodare i termini medico-legali del dibattito (per i quali non può che rinviarsi alle conclusioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità), in applicazione del criterio appena ricordato, la giurisprudenza ha escluso la sussistenza di una correlazione causale tra il vaccino e la sindrome autistica (tra le molte, cfr. App. Bologna, 13 febbraio 2015, n. 1767; Cass. 21 giugno 2016, n. 12821; Cass. 23 ottobre 2017, n. 24959; Cass. 25 luglio 2018, n. 19699; App. Trieste, 27 agosto 2018, n. 151; Cass. 11 marzo 2021, n. 6921); in questo senso depone anche l’ordinanza in commento. A conclusioni differenti sono giunti, sia pur in maniera del tutto sporadica, alcuni giudici di merito che, nell’avvalersi delle conclusioni peritali, hanno talvolta impiegato il criterio della correlazione temporale (“post hoc, propter hoc”) tra la somministrazione del vaccino e l’emersione della patologia, ovvero quello dell’esclusione di ulteriori fattori concausali (Trib. Rimini, 15 marzo 2012, n. 148; Trib. Pesaro, 1° luglio 2013, n. 260).
Il consenso informato: presupposto essenziale del trattamento sanitario
Eppure, come anticipato, la mancata dimostrazione del rapporto causale non ostava al riconoscimento di un danno derivante dalla violazione dell’obbligo del consenso informato (in assenza del quale si può incorrere anche in responsabilità penale per trattamento arbitrario), il quale attiene al diritto del paziente alla autodeterminazione terapeutica (distinto ed autonomo dal diritto alla salute).
Il tema, come noto, è stato di recente attenzionato dal diritto positivo con la l. 22 dicembre 2017, n. 219, la quale assegna al consenso informato un ruolo centrale nell’espressione dell’individuo alla propria libertà di autodeterminarsi, in ambito sanitario, rispetto a decisioni riguardanti il proprio corpo. Un simile esito si comprende già a partire dall’incipit della legge citata che, all’art. 1, comma 1, stabilisce che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”: il consenso, in altre parole, diviene presupposto ineliminabile del trattamento medesimo.
Considerato il carattere “raccomandato” della vaccinazione oggetto dell’ordinanza (oggi invece obbligatoria ai sensi e nei termini dell’art. 1, comma 1-bis, d.l. 7 giugno 2017, n. 73) e l’età del bambino, all’epoca infante, essendo invero necessaria l’acquisizione di un consenso informato al trattamento sanitario proposto, questo non poteva che essere “espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità, e avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità” (art. 3, comma 2, l. 22 dicembre 2017, n. 219).
Come di recente rilevato in giurisprudenza (Cass. 11 novembre 2019, n. 28985), per affermare una responsabilità da violazione degli obblighi informativi, “attesa l’impredicabilità di danni in re ipsa nell’attuale sistema della responsabilità civile”, occorre nondimeno verificare che, se correttamente informato circa i rischi derivanti dal trattamento, il paziente si sarebbe comunque sottoposto al trattamento o, per converso, lo avrebbe rifiutato “(avuto riguardo alla necessità dello stesso, alle proprie condizioni di salute, al tempo ed alle modalità di esecuzione)”.
Rispetto al caso in esame, tuttavia, l’indagine circa la decisione assunta in caso di adeguata informazione non appare in fin dei conti possibile, giacché la Suprema Corte si limitava a statuire che “i rischi connessi alla vaccinazione non obbligatoria, ai fini della formazione del consenso informato” non erano stati adeguatamente esposti, da parte dell’ASL competente, ai genitori del minore, null’altro esponendo sul punto.