Il consenso informato e il trattamento medico: un bilanciamento delicato
Una delle questioni più controverse nelle quali la dottrina e la giurisprudenza si sono imbattute è il trattamento medico arbitrario, ossia il caso in cui il sanitario esegua trattamenti, non solo di chirurgia, senza il consenso del paziente o, addirittura, contro il suo esplicito dissenso.
È da premettere che il consenso del paziente rappresenta una condizione indefettibile per l’agire medico, il quale trova un limite invalicabile nel principio di matrice costituzionale della libertà di autodeterminazione dell’uomo, anche in ambito sanitario.
Plurime, infatti, sono le fonti normative che consacrano tale principio, sia in ambito internazionale sia in quello nazionale.
Tra le prime, è possibile annoverare l’art. 5, comma 1, della Convenzione di Oviedo del 1997 sulla biomedicina nella quale si afferma che “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato”, concetto ribadito anche nell’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Sul piano normativo interno, è inequivocabile quanto espresso nella Carta costituzionale che, all’art. 32, comma 2, recita: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. La preminenza del consenso del paziente è stata ribadita anche di recente, dalla l. 22 dicembre 2017, n. 219, in materia di consenso informato, espressione che rimarca l’indispensabilità di detto requisito che, peraltro, deve radicarsi su un’adeguata informazione fornita dal sanitario. Invero, solo la piena conoscenza dei rischi e dei benefici legati a un determinato trattamento medico è in grado di far sì che il paziente possa autodeterminarsi liberamente, decidendo financo, con coscienza, di lasciarsi morire.
Questo nuovo approccio ha favorito l’abbandono del tradizionale paternalismo sanitario in favore della cosiddetta alleanza terapeutica tra medico e paziente, dove il primo assume un ruolo essenziale nell’informare il secondo, il quale è comunque l’unico dominus delle decisioni destinate a incidere sul proprio corpo.
Inoltre, è possibile evidenziare come le criticità legate al consenso non si pongano nei casi in cui il paziente non sia in grado di esprimere validamente la propria volontà, e, dunque, di autodeterminarsi. Si tratta, in particolare, di ipotesi eccezionali, come il caso del paziente sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio oppure quando questi versi in condizioni tali da non potersi autodeterminare con coscienza o, ancora, quando ricorrano situazioni emergenziali nelle quali non è concretamente possibile acquisire il consenso dell’interessato. Tutte queste ipotesi sono accomunate dal fatto che il sanitario è legittimato ad agire prescindendo dalla volontà del paziente che, in ragione delle sue peculiari condizioni, non è in grado di formarla compiutamente.
Nonostante gli aspri contrasti emersi nel corso dei decenni, il legislatore non ha mai provveduto a disciplinare la materia. La normativa, infatti, non si esprime sulla natura giuridica di siffatte condotte del sanitario, non specificando nemmeno, nel caso in cui si versi nell’ambito del penalmente rilevante, quali debbano essere le conseguenze di tale illiceità e, in particolare, quali siano le fattispecie incriminatrici applicabili.
Come già detto, sulle questioni appena accennate si sono sviluppati orientamenti giurisprudenziali discordanti, a tal punto che, nel 2009, si è reso necessario l’intervento uniformatore delle Sezioni Unite che hanno cercato di fissare alcuni punti fermi con la nota pronuncia Giulini.
Il caso Massimo: sulla necessità del consenso del paziente per escludere la responsabilità penale del medico
Il punto di partenza di questo excursus è rappresentato dalla sentenza Massimo della Corte di Cassazione (Cass., sez. V, 21 aprile 1992, n. 5693), con la quale si è impressa una svolta alla tradizionale visione dottrinale e giurisprudenziale intrisa di paternalismo medico.
Secondo l’approccio originario, infatti, al sanitario era concesso il potere di imporre le proprie decisioni al paziente, nella convinzione che il primo, forte dei suoi studi scientifici e della finalità curativa che lo guida, avrebbe di certo tutelato nel migliore dei modi la salute del paziente. Egli, in sostanza, era legittimato a decidere in luogo del paziente, in quanto la soluzione che avrebbe adottato sarebbe stata, di certo, la migliore.
È evidente che una tale concezione rappresenti una compressione della libertà personale del paziente, il quale perde il diritto di autodeterminarsi, in ragione del fatto che vi è una persona più competente a decidere.
Di contro, nella sentenza Massimo, si assiste al tentativo della giurisprudenza di restituire spazi di libertà all’individuo, attribuendogli la “signoria” del proprio corpo.
Nel caso di specie, la Cassazione aveva confermato la condanna per omicidio preterintenzionale di un chirurgo che, in occasione dell’intervento, non si era limitato ad eseguire quanto previamente prospettato e concordato con la paziente, ma aveva travalicato i limiti convenuti, effettuando, dunque, un’operazione non consentita da cui era conseguita la morte della paziente. Egli, infatti, aveva eseguito un’operazione più invasiva rispetto a quella prevista, in assenza di alcun tipo di urgenza e di necessità terapeutiche.
L’argomentazione della Suprema Corte, che ha condotto a confermare la pronuncia di condanna del chirurgo per omicidio preterintenzionale, si fonda sull’assunto secondo cui, ogniqualvolta un medico intervenga sul corpo del paziente, si viene a determinare un’alterazione anatomica qualificabile giuridicamente come malattia ai sensi dell’art. 582 c.p. Ricorrendo tale occasione, il sanitario, arrecherebbe una lesione personale volontaria al paziente, con conseguente responsabilità penale.
Questi andrebbe esente da responsabilità, quanto meno a titolo di dolo, solo qualora il paziente abbia acconsentito al trattamento sanitario. Il consenso del paziente, infatti, a giudizio della Suprema Corte, riveste la funzione di scriminante ex art. 50 c.p., in difetto della quale la condotta del medico è da ritenersi antigiuridica.
A ciò si aggiunge che la Suprema Corte non abbia posto alcun discrimine tra i casi in cui dall’atto medico derivi un esito fausto e quelli da cui, invece, scaturisca un evento infausto. In sostanza, la giurisprudenza, nonostante la diversità fondamentale dell’esito, tratta alla stessa stregua le due ipotesi, attribuendo rilievo esclusivo, ai fini del giudizio di illiceità della condotta, all’arbitrarietà o meno dell’atto medico.
Sulla scorta di tali considerazioni, il Supremo Collegio ha affermato che, quando il medico agisce consapevole del difetto del consenso del paziente, è configurabile il delitto di lesioni personali, ritenendo integrato l’elemento soggettivo del dolo. In questi casi, difatti, il medico agisce nella consapevolezza che la sua attività realizzerà un’alterazione anatomica del corpo del paziente che, a parere della giurisprudenza tradizionale, rientra nella nozione di malattia e, conseguentemente, nel concetto di lesione prevista dall’art. 582 c.p.
Da quanto appena affermato deriva, come naturale conseguenza, la punibilità del medico per omicidio preterintenzionale, quando la morte del paziente sia l’evento non voluto derivante dal reato di lesione personale, presupposto indefettibile per l’integrazione del reato di cui all’art 584 c.p.
Sul punto, la sentenza Massimo ha affermato che l’omicidio preterintenzionale costituisce un’ipotesi di dolo misto a responsabilità oggettiva, dove il dolo copre il reato di lesione personale, mentre la responsabilità oggettiva attiene all’evento avverso; quest’ultimo, dunque, viene addebitato al soggetto agente sulla base del nesso di causalità intercorrente tra fatto ed evento, operazione che, tuttavia, confligge con l’art. 27 Cost., il quale richiede che la responsabilità penale, per sussistere, debba essere necessariamente soggettiva, ossia correlata al dolo o, quantomeno, alla colpa del soggetto agente.
La successiva evoluzione giurisprudenziale
In seguito, la giurisprudenza in tema di trattamento medico arbitrario ha visto un andamento irregolare, con pronunce che si sono susseguite spesso in modo discordante, tanto da provocare l’intervento delle Sezioni Unite nel caso Giulini.
Prima di analizzare quest’ultima sentenza, vale la pena di ricordare le principali pronunce intervenute a seguito del caso Massimo.
La colpa medica al centro del caso Barese
Una prima inversione di tendenza rispetto alla sentenza Massimo si è avuta dopo circa un decennio, nel noto caso Barese (Cass. pen., sez. IV, 9 marzo 2001, n. 28132).
La vicenda è analoga a quella del caso Massimo, in quanto riguarda un medico imputato per la morte di una paziente, il quale aveva eseguito un’operazione non debitamente consentita, poiché aveva eseguito un trattamento differente e di portata più invasiva rispetto a quello concordato.
Nonostante la somiglianza con il caso appena trattato, in questa nuova occasione, la Suprema Corte ha condannato l’imputato non per omicidio preterintenzionale, ma per omicidio colposo per aver commesso una condotta imperita.
I giudici sono pervenuti a tale approdo rivoluzionando l’approccio preesistente: in particolare, si è ritenuto che non vi è una malattia ai sensi dell’art. 582 c.p. qualora il medico eserciti la propria attività, seppur non consentita dal diretto interessato, allo scopo di realizzare una finalità curativa. La Suprema Corte, infatti, ha ritenuto che il dolo intenzionale, richiesto dall’art. 582, oltre che dall’art. 584 c.p., per il reato di lesioni, fosse incompatibile con la finalità che guida il medico, non essendo concepibile la coesistenza, in capo al medesimo soggetto, di una volontà curativa e, al contempo, di un intento di arrecare una lesione. Ciò implica che il medico che ha posto in essere un trattamento senza il consenso del paziente non risponda di lesioni personali dolose e di omicidio preterintenzionale – atteso il difetto dell’elemento soggettivo doloso –, potendo però residuare, come nel caso in questione, una responsabilità a titolo di colpa per aver agito violando le regole cautelari volte a neutralizzare il rischio del verificarsi di un determinato evento avverso. Pertanto, in questi casi, la colpa del medico non discende sic et simpliciter dalla mancata acquisizione del consenso, ma è correlata a una condotta contra legem artis che ha determinato l’evento che la regola cautelare intendeva scongiurare.
Il caso Cicarelli: la responsabilità penale per l'atto medico non consentito
L’andamento scostante della giurisprudenza emerge nella sentenza Cicarelli (Cass., pen., sez. IV, 27 marzo 2001, n. 36519), sostanzialmente concomitante alla pronuncia Barese, rispetto alla quale si distacca in modo radicale.
Nel caso di specie, i giudici di legittimità hanno sostenuto che nessuna rilevanza dovesse essere attribuita alla finalità curativa che ispira il medico, atteso che la liceità dell’agire del sanitario dipende unicamente dalla presenza del consenso del paziente, in assenza del quale si avrebbe un’autentica “manomissione del corpo dell’uomo”, a nulla valendo il fatto che la salute possa essere migliorata.
Da ciò consegue, a parere dei giudici del caso Cicarelli, che l’atto medico arbitrario è idoneo a integrare le fattispecie di violenza privata e di lesioni personali dolose e, nel caso di morte, il delitto di omicidio preterintenzionale.
L'errore medico e il consenso informato: il caso Firenzani
Altra tappa degna di nota afferente alla tematica in parola è il caso Firenzani (Cass. pen., sez. IV, 11 luglio 2001, n. 35822).
La vicenda in esame riguarda un medico che aveva operato il ginocchio “sbagliato” – in quanto l’operazione avrebbe dovuto interessare l’altro ginocchio in base agli accordi precedentemente intercorsi tra il medico e il paziente – e che, ciononostante, aveva determinato benefici per il paziente, in quanto anche il ginocchio operato necessitava di un intervento.
In tale occasione, il sanitario era stato condannato per lesioni personali colpose, in ragione dell’applicazione dell’art. 59, ultimo comma, c.p., relativo alla c.d. scriminante putativa, in ragione del fatto che egli aveva agito nella convinzione di operare il ginocchio “corretto”, ossia quello per il quale il paziente aveva prestato il consenso
Il consenso del paziente, ancora una volta, viene elevato a scriminante dell’atto medico e definito quale “presupposto di liceità del trattamento medico-chirurgico” che, altrimenti, sarebbe punibile poiché lesivo dell’integrità corporea dell’interessato.
La Costituzione a tutela dell'atto medico: il caso Volterrani
Di assoluta rilevanza è la sentenza Volterrani (Cass., pen., sez. I, 29 maggio 2002, n. 2041), intervenuta poco dopo il caso Firenzani.
Tale arresto si connota di innovatività, in quanto è caratterizzato da un approccio che si discosta da quello più conservatore che individuava nel consenso il requisito imprescindibile di liceità del trattamento medico.
La pronuncia, in sintesi, ha affermato che l’atto medico non abbisognasse del consenso del paziente per ritenersi lecito, dal momento che tale attività è da ritenersi di per sé legittima trovando fondamento nell’art. 32 della nostra Carta costituzionale (che rappresenta una sorta di “scriminante costituzionale”).
Ne deriva, dunque, la legittimità anche degli atti non sorretti dal consenso del paziente, relegando l’antigiuridicità alle sole attività realizzate contro il chiaro dissenso del paziente.
Sulla scia di questa pronuncia, si sono mossi altri arresti della giurisprudenza di legittimità, tra i quali è possibile ricordare il caso Ruocco (Cass. pen., sez. IV, 2 giugno 2008, n. 35852) e il caso Huscer (Cass. pen., sez. IV, 16 gennaio 2008, n 11335), nei quali si è evidenziato come la finalità curativa fosse incompatibile con il dolo richiesto dal delitto di lesioni.
Il caso Giulini: un punto di riferimento per la responsabilità medica
Nel corso degli anni, la giurisprudenza si è continuata a dividere sul tema, sul quale si sono fronteggiati due indirizzi principali: uno riteneva che l’atto medico dovesse necessariamente essere sorretto dal consenso del paziente, mentre un altro radicava l’antigiuridicità della condotta medica unicamente nel contrasto con la volontà del paziente.
A fronte di un’applicazione giurisprudenziale incerta, si è reso necessario l’intervento delle Sezioni Unite che sono intervenute nella vicenda Giulini (Cass. pen., S.U., 21 gennaio 2009, n. 2437).
Anche questa volta, la Suprema Corte si è interrogata sulla rilevanza penale del trattamento medico arbitrario eseguito, peraltro, in conformità alle regole dell’arte e avente esito fausto.
Al quesito, le Sezioni Unite hanno dato una risposta con cui si è voluto prendere le distanze dalla concezione tradizionale.
In primis, infatti, il Supremo Collegio ha accolto una nozione c.d. “funzionalistica” di malattia, facendo rientrare in tale nozione, non qualsiasi alterazione anatomica, ma solo le ipotesi in cui vi sia stato un peggioramento delle condizioni di salute del paziente.
La sentenza prosegue affermando che, nei casi di trattamento medico posto in essere nonostante il dissenso del paziente, potrebbe configurarsi il delitto di violenza privata previsto dall’art. 610 c.p., in quanto l’atto medico realizzerebbe una coercizione finalizzata a imporre all’interessato un trattamento indesiderato. Invece, nel caso di atto medico realizzato senza aver prima accertato la volontà del paziente, non si verserebbe nella fattispecie incriminatrice di violenza privata, difettando un contrasto tra l’attività sanitaria e la volontà del paziente, il quale, in tale ipotesi, non ha nemmeno manifestato le proprie intenzioni.
Le Sezioni Unite, inoltre, hanno affermato che l’attività medica è intrinsecamente lecita, così da non aver bisogno di essere scriminata dal consenso del paziente, in quanto, in realtà, è legittimata dalla stessa Costituzione. Dalla piena legittimità dell’atto medico ne deriva logicamente l’impossibilità che il medico, solo per essere intervenuto senza il consenso del paziente, possa essere incriminato per lesioni personali dolose, a meno che egli abbia agito con l’intenzione di arrecare una menomazione al corpo del paziente. Per le stesse ragioni, non è possibile che la condotta medica ispirata a fini curativi, in caso di evento morte del paziente, possa integrare il reato di omicidio preterintenzionale.
Nel corso della sentenza, si aggiunge che il trattamento medico arbitrario non può determinare di per se stesso la responsabilità del sanitario per omicidio colposo.
Tale conclusione si fonda sul fatto che l’aver agito senza aver previamente recepito il consenso del paziente non costituisce la violazione di una regola cautelare volta a evitare la morte del paziente. Ne deriva che tale omissione non potrebbe rilevare di per sé ai fini del giudizio circa la responsabilità colposa del sanitario, atteso che essa non può essere ritenuta causativa dell’evento non voluto.
Al contrario, l’atto medico arbitrario potrebbe determinare la responsabilità del soggetto agente per omicidio colposo (la stessa considerazione vale anche per il delitto di lesioni colpose) per un’altra ragione, ossia per aver eseguito la prestazione sanitaria in difformità alle regole dell’arte medica, queste sì, volte a prevenire la verificazione dell’evento avverso.
In conclusione, la responsabilità del medico, se orientata alla cura del paziente, essendo ontologicamente incompatibile con l’elemento soggettivo del dolo, non può che dar vita a una responsabilità per lesioni colpose o per omicidio colposo, a condizione, però, che gli eventi avversi non voluti siano la diretta conseguenza della violazione di regole cautelari (di negligenza, prudenza e imperizia, scritte o meno) volte a neutralizzarli. Nessuna rilevanza, pertanto, avrebbe il non aver recepito il consenso, in quanto la violazione di tale regola – che deve comunque informare il modus operandi del sanitario – non presenta alcun legame causale con la verificazione degli eventi avversi, rappresentando, invece, un mero accidente.
Le criticità della sentenza Giulini
La sentenza Giulini ha rappresentato l’approdo di questa diatriba giuridica, costituendo, inoltre, un punto di riferimento per le successive pronunce che, in sostanza, si sono conformate ad essa (tra le più rilevanti si vedano: Cass., 20 aprile 2010, n. 21799; Cass., 24 marzo 2015, n. 21537; Cass., 14 settembre 2022, n.48619).
Ad ogni buon conto, nonostante che la pronuncia Giulini abbia avuto il merito di dirimere alcuni nodi spinosi che gravavano sul tema, non si può non evidenziare le perplessità che sono state avanzate da una parte della dottrina. In particolar modo, due sono le criticità più evidenti su cui è stata posta l’attenzione: in primo luogo, il possibile ritorno al paternalismo sanitario, mediante l’autolegittimazione dell’attività medica; in secondo luogo, l’intrinseca contraddittorietà di tale orientamento che, sebbene sostenga l’autolegittimazione dell’atto medico, compreso quello realizzato in assenza del consenso, ritiene comunque che il consenso rappresenti il necessario presupposto di liceità dell’atto medico. Una tale affermazione appare evidentemente contraddittoria, poiché, se l’atto si legittimasse da sé, non necessiterebbe, di conseguenza, di alcuna scriminante esterna.