Il caso di specie
La vicenda da cui la pronuncia è scaturita riguardava un dipendente di una società di telecomunicazioni, addetto all'assistenza tecnica di primo livello alla clientela business, che, essendo affetto da “gravi deficit visivi”, incontrava notevoli difficoltà nell’accedere alla sede di lavoro cui era assegnato. Dopo aver chiesto invano alla società il trasferimento in una sede più vicina alla sua residenza, il lavoratore si era rivolto al giudice, domandando che fossero disposte in suo favore sia l’assegnazione presso una sede più accessibile, sia la possibilità di svolgere le proprie mansioni da remoto o in modalità di lavoro agile.
Il ricorso, rigettato in primo grado, era stato invece accolto dalla Corte di Appello, che aveva riscontrato una “violazione dell'art. 3, comma 3-bis, d. lgs. n. 216/2003” da parte della società per la “mancata adozione […] di ragionevoli accomodamenti, prescritti dalla norma in funzione antidiscriminatoria con riguardo ai lavoratori con disabilità”.
La pronuncia resa in secondo grado è stata poi impugnata dalla società soccombente dinnanzi alla Corte di Cassazione.
La sentenza della Cassazione
In via preliminare, la Suprema Corte ha ricordato che la tutela contro la discriminazione per disabilità, fondata su fonti di derivazione eurounitaria[ref]Il riferimento è alla direttiva 2000/78/CE e alla Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea[/ref]. e internazionale[ref]Il riferimento è alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall'Italia con legge n. 18/2009[/ref], postula “l'applicazione del principio dell'individuazione di soluzioni ragionevoli […] ovvero […] degli accomodamenti ragionevoli” necessari al fine di “assicurare il principio di parità di trattamento dei lavoratori con disabilità”.
Tanto premesso, i giudici di legittimità si sono poi soffermati sul particolare regime probatorio operante nei giudizi in tema di comportamenti datoriali discriminatori, ribadendo che, secondo i canoni speciali di riparto dell’onere probatorio di cui all'art. 4 del d.lgs. 216 del 2003, incombe “sul lavoratore l'onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe”, mentre al datore di lavoro spetta “dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere […] la natura discriminatoria della misura litigiosa”.
Detti canoni, prosegue la sentenza, erano stati rispettati dalla Corte Distrettuale, che aveva poi verificato, tramite una attività di accertamento riservata al giudice del merito, l’effettiva possibilità per il ricorrente di espletare le proprie mansioni da remoto e per il datore di predisporre la misura dello smartworking, così da “rendere concretamente compatibile l'ambiente lavorativo con le limitazioni funzionali del lavoratore disabile”.
La decisione impugnata, dunque, è stata confermata dalla Cassazione, che in questo modo ha riaffermato il principio secondo cui il ragionevole accomodamento organizzativo idoneo a contemperare l'interesse del lavoratore disabile al mantenimento di una occupazione “confacente alla sua condizione psico-fisica” con quello del datore a “garantirsi una prestazione lavorativa utile all'impresa” ben potrebbe individuarsi, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto, nella soluzione dello smart working. E ciò pure nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, l’utilizzo di tale strumento non sia stato concordato in sede negoziale tra le parti e, anzi, esista un accordo aziendale che esclude il lavoro da remoto per le mansioni cui è adibito il lavoratore con disabilità.
Le implicazioni della decisione
Alla luce (anche) di quest'ultima sentenza, può osservarsi che i datori di lavoro sono chiamati a valutare con particolare attenzione le domande di fruizione del regime di smart working eventualmente avanzate dai lavoratori a motivo della propria disabilità. Là dove la richiesta sia giustificata, la prestazione possa essere effettivamente svolta da remoto e l’attuazione della misura in discorso non sia eccessivamente onerosa, infatti, il diniego della stessa da parte delle imprese potrebbe violare i “doveri imposti” ai datori “per rimuovere gli ostacoli che impediscono ad una persona con disabilità di lavorare in condizioni di parità con gli altri lavoratori" ed essere idoneo, dunque, ad integrare una "discriminazione diretta” nei confronti dei dipendenti con disabilità.