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18 ago 2025 12:30 18 agosto 2025

Fine vita: la Corte costituzionale si pronuncia di nuovo in merito ai trattamenti di sostegno vitale (Corte cost. n. 66/2025)

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Dichiarando infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal G.i.p. di Milano, la Corte costituzionale ha confermato nuovamente l’impianto della sentenza n. 242/2019, ribadendo la natura di requisito essenziale per l’accesso al suicidio medicalmente assistito della sottoposizione del paziente a trattamenti di sostegno vitale

Una nuova questione di legittimità sul requisito dei trattamenti di sostegno vitale

Con la sentenza n. 66/2025 la Corte costituzionale è stata chiamata nuovamente a pronunciarsi sul trattamento di sostegno vitale quale requisito per l’accesso al suicidio medicalmente assistito, decidendo la questione di legittimità costituzionale sollevata dal G.i.p. presso il Tribunale di Milano, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero nell’ambito di due procedimenti penali, successivamente riuniti, per il delitto di aiuto al suicidio ex art. 580 c.p. a carico di Marco Cappato, autodenunciatosi per aver accompagnato in Svizzera due persone: una prima affetta da microcitoma polmonare in stadio avanzato e non più curabile; una seconda affetta da “Parkinson Atipico” e con un quadro clinico fortemente compromesso ed irreversibile. Entrambe, date le sofferenze causate dalle rispettive patologie, avevano deciso autonomamente di morire e rifiutare le terapie indicate dai medici, che nel primo caso sarebbero consistite in un ulteriore ciclo chemioterapico, ritenuto inutile dalla paziente stessa; mentre nel secondo caso nel posizionamento della PEG per la nutrizione, il cui rinvio fu possibile grazie alla somministrazione da parte della moglie dell’interessato di alimenti omogeneizzati.

Avendo il G.i.p. rilevato l’impossibilità di escludere l’applicazione dell’art. 580 c.p., data la ritenuta non sussistenza dell’ipotesi di esclusione della punibilità stabilita dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 242/2019, per il fatto che i pazienti nel momento di realizzazione della condotta criminosa non risultavano dipendere da trattamenti di sostegno vitale, è stato chiesto ai Giudici di Palazzo della Consulta di dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 580 c.p., così come modificato dalla sentenza n. 242/2019, esclusivamente nella parte in cui si pone come requisito per la non punibilità la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale di persona affetta da patologia irreversibile e fonte di sofferenze, ritenute intollerabili, ma capace di esprimere un consenso libero e consapevole, per contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 32, 2 comma, e 117, 1 comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU. In precedenza in modo analogo aveva agito il G.i.p. di Firenze, portando alla pronuncia della sentenza n. 135/2024, pubblicata successivamente al deposito dell’ordinanza di rimessione.

Nel far ciò, il giudice a quo ha specificato che, se avesse accolto la richiesta di archiviazione del pubblico ministero, basata sull’equivalenza tra rifiuto di trattamento di sostegno vitale in atto e  rifiuto di trattamento sanitario «futuro o inutile» e qualificabile come «accanimento terapeutico», avrebbe spostato in via interpretativa «il delicato baricentro» su cui si fonda il pronunciamento della Corte del 2019, compiendo un’operazione ermeneutica che non gli è consentita. Infatti, per il rimettente non sarebbe possibile assimilare la fattispecie di una persona sottoposta a trattamento di sostegno vitale, di cui la medesima chiede l’interruzione, a quella di un paziente a cui venga prospettato un trattamento «mai iniziato» e che lo stesso «di fatto non ha mai rifiutato espressamente».

Un nuovo intervento dei diretti interessati, ma ora ad opponendum

Anche in questa occasione con ordinanza posta in calce alla pronuncia in oggetto e letta nel corso dell’udienza del 26 marzo scorso, la Corte costituzionale ha ammesso nel giudizio davanti a sé l’intervento, questa volta ad opponendum, di quattro persone, affette da  diverse patologie e la cui condizione integra i requisiti previsti dalla sentenza n. 242/2019 per la non punibilità del suicidio medicalmente assistito, fatta eccezione per la sottoposizione a trattamento di sostegno vitale, così come definiti con la sentenza n. 135/2024.

Essi sono stati ritenuti portatori di un interesse qualificato alla conservazione del requisito oggetto di questione di legittimità, posto che ad essere coinvolto è il loro diritto alla vita.

Nello specifico, l’intervento è stato giustificato dagli istanti sulla base dell’ampliamento considerevole dell’accesso al suicidio assistito che l’espunzione del requisito della sussistenza di trattamenti di sostegno vitale avrebbe prodotto, posto che un’eventuale pronuncia di accoglimento avrebbe inciso in maniera immediata, diretta e attuale sul loro diritto alla dignità personale, presupponendo così un giudizio da parte dell’ordinamento di minor valore della loro vita rispetto a quella degli altri consociati. Difatti, il loro timore si identificava con il rischio di «essere indotti a una richiesta “anticonservativa”», vista dagli stessi come «una sorta di annichilazione del loro valore personale» e che, se formulata, non avrebbe lasciato loro il tempo utile per agire giudizialmente, privando di ogni effettività il loro diritto di difesa, non avendo a disposizione altra sede processuale per far valere le proprie ragioni.

L’infondatezza delle questioni sollevate

Per dichiarare l’infondatezza delle questioni di legittimità sollevate dal G.i.p. di Milano la Corte costituzionale ha ampiamente richiamato le argomentazioni sviluppate nella sentenza dello scorso anno, ribadendo come il diritto fondamentale ricavabile dal combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32, 2 comma, Cost., in forza del quale il Giudice delle leggi non ha ritenuto «giustificabile sul piano costituzionale un divieto assoluto di aiuto al suicidio» (sentenza n. 135/2024, § 7.2 Cons. dir.), deve includere al suo interno il diritto del paziente a rifiutare fin dall’inizio un trattamento terapeutico, in quanto sarebbe «paradossale che il paziente debba accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale solo per interromperli quanto prima, essendo la sua volontà quella di accedere al suicidio assistito».

Pertanto, la condizione della necessaria sottoposizione a trattamento di sostegno vitale, posta con la sentenza n. 242/2019,  è stata nuovamente ritenuta inidonea a determinare una disparità di trattamento contraria al principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., potendo anche i pazienti non dipendenti da essi accedere al suicidio assistito, qualora vi sia un’indicazione medica circa la necessità di attivare un trattamento necessario «ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali» e sussistano anche gli altri presupposti.

Analogamente a quanto rilevato nella pronuncia n. 135/2024, i Giudici di Palazzo della Consulta hanno respinto anche le altre censure formulate dal giudice rimettente.

Difatti il diritto all’autodeterminazione del paziente non sarebbe vulnerato per le stesse ragioni, per cui non sussiste alcun obbligo del paziente di iniziare un trattamento di sostegno vitale ritenuto necessario come poc’anzi esposto.

Inoltre, è stato ribadito come al legislatore spetti un «significativo margine di discrezionalità» nel bilanciare il dovere dello Stato di tutelare la vita umana ex art. 2 Cost. e il principio di autodeterminazione del paziente su decisioni che riguardano il proprio corpo, quale declinazione del diritto al libero sviluppo della persona, ben potendo optare, secondo la Corte, per soluzioni legislative che consentano anche a chi non dipende da trattamenti di sostegno vitale di accedere al suicidio assistito, purché siano apprestate le adeguate garanzie contro eventuali abusi o l’abbandono.

Da escludersi è persino la violazione degli artt. 8 e 14 CEDU, dato che con la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 13 giugno 2024, Karsai v. Ungheria si è riconosciuto sussistere un ampio margine di discrezionalità in capo agli Stati parte della Convenzione sulle modalità di bilanciamento tra il diritto alla vita privata e la tutela del diritto alla vita, posto che nei diversi ordinamenti non è possibile rinvenire un’uniformità di posizioni.

Il carattere essenziale dei requisiti elaborati dalla giurisprudenza costituzionale

Questa pronuncia ha rappresentato l’occasione per il Giudice delle leggi di ribadire il carattere essenziale dei requisiti sostanziali e procedurali per la non punibilità dell’aiuto al suicidio elaborati dalla giurisprudenza costituzionale, dato che il loro scopo è quello di «creare una “cintura di protezione”», utile a scongiurare il rischio che l’assunzione di una decisione estrema e irreversibile, come quella del suicidio assistito, avvenga dietro condizionamenti o interferenze di soggetti terzi e non sia il frutto di una autonoma determinazione del paziente.

Infatti, anche «nel contesto del pluralismo etico» proprio di un ordinamento democratico liberale la libertà di autodeterminazione della persona deve essere sempre necessariamente bilanciata con il «contrapposto dovere di tutela della vita umana» di ogni individuo, gravante sullo Stato in forza del principio personalista ex art. 2 Cost., al fine di garantirne la genuinità.

Pertanto, le condizioni poste dalla giurisprudenza della Corte costituzionale in merito sono frutto del tentativo di realizzare un primo bilanciamento tra gli interessi costituzionali in gioco, il cui esito si colloca, secondo il Giudice delle leggi, «su un duplice livello»: i) «la necessità di prevenire il pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili»; ii) il contrasto a «derive sociali o culturali che inducano le persone malate a scelte suicide» attraverso l’esercizio nei confronti di queste ultime di una «“pressione sociale indiretta”» che le convinca di essere ormai divenute un peso per la società e la propria famiglia, così da assumere decisioni irreversibili, per cui altrimenti non avrebbero optato.

Il requisito della procedura di cui all’art. 1 della l. n. 219/2017, nonché quello del coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale (SSN), sono, dunque, funzionali a soddisfare il primo ordine di esigenze, assicurando, rispettivamente, che il suicidio sia realizzato in presenza di una «seria assistenza medica» e che l’accertamento della sussistenza delle condizioni di accesso alla procedura avvenga in modo disinteressato.

Il secondo livello, invece, esige che siano predisposte varie forme di sostegno, assistenza, nonché tutti i mezzi utili a ridurre i disagi, che possano derivare dalle gravi situazioni patologiche che affliggono i pazienti considerati, avendo riguardo anche per i parenti che li assistono per lungo tempo in «situazioni particolarmente difficili».

I problemi di accesso alle cure palliative e il nuovo appello al legislatore e al Servizio sanitario nazionale

Rinnovando uno schema già riproposto nei suoi precedenti in materia di “fine vita”, la Corte in chiusura di motivazione ha voluto specificare in modo più puntuale rispetto al passato le criticità che la rete di cure palliative sta presentando in Italia, a causa di una molteplicità di fattori come la carenza di un accesso equo ed universale alle stesse, le lunghe liste di attesa, nonché la carenza di personale specializzato, il difetto di distribuzione capillare sul territorio e la frequente insufficienza della presa in carico dei pazienti da parte del servizio sociosanitario.

Di conseguenza è stato rinnovato l’appello, già formulato più volte, affinché il legislatore (inteso in senso generico e senza specificare se statale o regionale) intervenga: per sopperire alle criticità che le reti di cure palliative presentano, così da scongiurare un improprio ricorso al suicidio assistito, siccome esse rappresentano un «pre-requisito della scelta» del paziente (cfr. sentenza n. 242/2019 e ordinanza n. 207/2018); per dare attuazione, insieme al SSN, alla sentenza n. 242/2019, pur essendo possibile l’elaborazione di una differente disciplina nel rispetto del bilanciamento compiuto dalla giurisprudenza costituzionale.