I fatti di causa
La pronuncia in esame prende le mosse da un caso di malpractice sanitaria.
Un paziente si era sottoposto ad un intervento di laser agli occhi, eseguito presso una casa di cura privata, dal quale erano risultati danni alla vista. Al rigetto della domanda risarcitoria in primo grado, faceva seguito, in appello, la parziale riforma della decisione: ritenuto “altamente probabile” il rapporto di causalità, i giudici liquidavano il danno in misura, tuttavia, sensibilmente inferiore rispetto alle richieste attoree, poiché limitato ad un offuscamento della vista.
La Casa di Cura, in origine chiamata in causa dal professionista assieme all’impresa assicuratrice, ricorreva per cassazione, assumendo la propria estraneità rispetto all’operato del medico: la struttura, infatti, si sarebbe limitata a concedere in locazione alcuni spazi (e la relativa strumentazione) ad una società di medici, di cui era socio il professionista che aveva poi eseguito l’operazione.
La decisione: esclusa la responsabilità della struttura sanitaria
Come ormai noto, a partire dall’entrata in vigore della legge n. 24/2017 (c.d. Gelli-Bianco), la struttura sanitaria (pubblica o privata che sia) è responsabile, per il disposto combinato degli artt. 1218 e 1228 c.c., del danno arrecato da una condotta dolosa o colposa del proprio ausiliario – l’esercente la professione sanitaria – di cui si avvale nell’adempimento della propria obbligazione verso il paziente (art. 7, comma 1), a prescindere dal fatto che tale professionista si trovi ad operare in regime di libera professione intramuraria (art. 7, comma 2).
Come si deduce dalla pronuncia in esame (par. 1.2), sul presupposto, forse, che la vicenda si collocasse in un momento antecedente alla cennata riforma della responsabilità sanitaria, concludendo per la responsabilità del nosocomio, la Corte d’Appello faceva ricorso alla categoria del contratto con effetti protettivi verso il paziente: in forza di questo, “a fronte del pagamento del corrispettivo, sorgono a carico della clinica obblighi di tipo alberghiero, di messa a disposizione del personale, di fornitura dalle strutture necessarie, nonché di quanto necessario anche a far fronte all’insorgere di eventuali complicazioni”, cui discenderebbe la conseguenza che “la Casa di cura è responsabile ai sensi dell’art. 1228 c.c. poiché, sebbene tra la stessa e il medico non esista rapporto di lavoro subordinato, quando il chirurgo opera all’interno della clinica, assume la veste di ausiliario necessario della struttura stessa” (par. 1.2).
La Cassazione giungeva, invece, a conclusioni di segno opposto. Queste, in breve, le principali motivazioni sottese al sostanziale accoglimento del ricorso:
- Secondo l’ordinanza della Suprema Corte, il presupposto per l’operatività della responsabilità dell’ausiliario deve rintracciarsi necessariamente nella sussistenza di un rapporto professionale tra il medico e la struttura, in forza del quale l’esercente collabora con la seconda, in forma autonoma o dipendente, alla realizzazione della prestazione e la struttura ne è coinvolta; in altri termini, “occorre un titolo perché essa risponda del fatto del medico” (par. 1.2).
- Peraltro, proseguono i Giudici di legittimità, nel caso di specie, l’inadempimento non sarebbe stato ricollegabile né all’inidoneità dei locali né a difetti della strumentazione medica messa a disposizione, in quanto il danno sarebbe stato causato dalla sola condotta dell’esercente.
- Ad ogni modo, a prescindere da questa circostanza, per affermarne una responsabilità, la struttura avrebbe dovuto assumere un’obbligazione di cura nei confronti del paziente e, per il suo adempimento, avvalersi dell’operato dell’esercente, “o in un qualche modo [condividere] con il medico l’interesse alla prestazione sanitaria”.
- In definitiva, “anche a considerare la responsabilità per fatto altrui, allora deve esistere un rapporto con il medico che giustifichi il fatto che la struttura risponde non per un fatto proprio ma per la condotta di costui, e questo rapporto non può essere quello di aver locato ad una società, di cui il medico è parte, i locali dove costui svolge la sua attività”.
- Semmai, considerato che la struttura aveva concesso in locazione i suoi locali alla società, sarebbe stata quest’ultima a dover rispondere dell’operato dei suoi professionisti.
Né, si legge, dovrebbe condurre a diverse conclusioni la circostanza che una parte del corrispettivo del rapporto di locazione fosse costituito dagli utili della società – situazione comunque inidonea a convertire il contratto di locazione in un rapporto di collaborazione professionale.